Update: le prolungate vacanze mi hanno impedito di essere sulla breaking news. Non avevo notato che un blogger ne aveva ampiamente già scritto.
domenica 23 agosto 2009
These Are My Twisted Words
Nuovo singolo dei Radiohead. Dubito la versione sia definitiva. Si scarica qui (ovviamente copyleft). A me ricorda particolarmente i primi Pink Floyd con Syd Barrett.
sabato 22 agosto 2009
Sindrome di Stendhal
Finiscono domani i campionati mondiali di atletica leggera. Usain Bolt è stato il protagonista indiscusso della manifestazione. Con facilità disarmante, il velocista giamaicano ha frantumato i record dei 100 e 200 metri. Più che le prestazioni in sè, mi ha sorpreso l'attenzione che hanno suscitato. La notizia ha occupato la prima pagina di ogni quotidiano a me conosciuto. Dalla neo-celtica Provincia di Cremona al radical-chic New York Times. L'atletica è uno sport piuttosto popolare. Tuttavia, non è il calcio per i rissosi Latini, né il football per gli Statunitensi (sportivi da mascotte), né il cricket per quella gente old fashioned del Commonwealth.
Vi sono almeno due ragioni per tanto interesse. La prima è l'eccezionalità, la curiosità mossa da ciò che esce dall'ordinario. Un ragazzo negro che corre veloce è come un uomo deforme dai tratti elefantiaci. L'inusuale, finché resta distante, attrae. Confinate la diversità in uno schermo a 17 pollici e un transgender vincerà l'isola dei famosi.
La seconda ragione è estetica. In un articolo sul NYT dell'estate 2006, lo scrittore americano David Foster Wallace definisce "religiosa" la visione di Roger Federer sull'erba di Wimbledon. Nei così detti Federer Moments, il tennista svizzero esprime una "bellezza cinetica" che lo spettatore percepisce sovrannaturale, metafisica. Insomma: religiosa. E' una bellezza che non concerne lo stimolo sessuale e non è influenzata dai canoni culturali correnti. Per questo è così potente e universale. E' una bellezza che riguarda "la riconciliazione dell'essere umano con il fatto di avere un corpo".
Il corpo è spesso fonte di sofferenza. Si ammala, perde i capelli, emana cattivi odori, allo specchio talvolta non soddisfa. In ultima istanza, è il corpo che invecchia e che muore. Tuttavia, osservando la perfetta coordinazione neuromuscolare espressa da Federer, da Usain Bolt e da altri grandi campioni (Michael Jordan, Maradona, Muhammad Ali...), sembra di poter giustificare l'esistenza del corpo. Per qualche attimo, lo spettatore perdona ai suoi occhi la miopia, sorride all'adipe in esubero e trova una spiegazione per quella gabbia di carne e sangue che zavorra la sua anima.
lunedì 27 luglio 2009
Guttalax
Domani, più o meno, parto per San Sebastian, Spagna. Banksy farà surf con me. Ritorno il 6 Agosto con un nuovo post.
Vorrei rendere il blog più dinamico, ma non so ancora come. Comincio a trovare la forma attuale un po' stringente. Sarei deliziato se aveste qualche lassativo da suggerirmi. Commentate o mandate una mail.
domenica 26 luglio 2009
L'amore sacro e l'amor profano, ancora
C'è altro da dire su senso di colpa e lettura. L'analisi freak-economica di Tyler Cowen può essere integrata. In particolare, c'è una giustificazione per la scelta di terminare comunque un libro iniziato. E' una questione di regola contro discrezione.
Nel rapporto con la lettura, si può decidere di seguire una regola: finire sempre un libro cominciato. Oppure si può decidere di agire con discrezione: per ogni libro cominciato, finire il libro solo se è bello. Teoricamente, se l'obiettivo è leggere per piacere, seguire la regola non è mai meglio che agire con discrezione. Se tutti i libri cominciati sono belli, allora sia seguendo la regola che agendo con discrezione finiamo tutti i libri. Se almeno un libro cominciato è brutto, seguendo la regola finiamo anche il libro brutto, mentre agendo con discrezione possiamo sostituire il libro brutto con un altro, possibilmente bello. Tuttavia, questo ragionamento ha una falla: presuppone la perfetta capacità di valutare la bellezza di un libro. Se pensiamo di poter sbagliare il giudizio su un libro cominciato, allora può essere meglio seguire la regola che agire con discrezione.
Esemplifico. L'urlo e il furore di William Faulkner è un romanzo memorabile. La scrittura di Faulkner, tuttavia, non è immediata. Subendo le influenze dello sperimentalismo europeo di inzio Novecento (Joyce anzitutto), la prosa risulta accidentata. E' necessaria qualche pagina per entrare nel ritmo della narrazione. Qualche anno fa, iniziai a leggere l'urlo e il furore tre volte in un mese. Se avessi agito con discrezione, avrei abbandonato Faulkner al primo tentativo. Poichè seguii la regola, alla terza volta superai pagina sessanta e terminai uno dei migliori romanzi che abbia avuto la fortuna di incontrare.
Carlo Fruttero dice di comprendere il valore di un libro alla quinta riga. Primo, noi non siamo Carlo Fruttero. Secondo, non tutti i libri cominciano così:
A lungo, mi sono coricato di buonora. Qualche volta, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso "Mi addormento". E, mezz'ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi svegliava.
sabato 25 luglio 2009
L'amore sacro e l'amor profano
Ieri il Washington Times ha pubblicato un articolo sul senso di colpa e la lettura. Una maggioranza sovietica di lettori considera peccato capitale non terminare un libro: tradisce la moglie e se ne vanta con gli amici, abbandona un romanzo a metà e non lo sospira neppure al più intimo dei confessori.
Tyler Cowen, economista freak di Marginal Revolution, sostiene che perseguire una fastidiosa lettura è una scelta economicamente sbagliata. Quando iniziamo un libro, promettiamo implicitamente a noi stessi di concluderlo. Rispettare le promesse è importante. Tuttavia, più importante è correggere una decisione errata. L'economia è ricerca dell'allocazione migliore per risorse scarse. Il tempo è la più scarsa delle risorse. Se a pagina cinquanta scopriamo che Oceano Mare è un romanzo di merda, sopportare altro liquame è del tutto inutile. Invece di ostinarci su Baricco, possiamo andare in libreria e acquistare il sublime Cavalli Selvaggi di Cormac McCarthy.
Il senso di colpa della lettura parziale è un fenomeno psicologico tipicamente borghese. Prima dell'invenzione della stampa, i manoscritti erano pregiati come ametiste e solo gli aristocratici possedevano biblioteche personali. Gutenberg rese il libro un gioiello accessibile e l'ascendente borghesia si impossessò avidamente di questo status symbol culturale. Presto, tuttavia, il libro divenne un gioiello troppo accessibile. La borghesia, per proteggere dall'inflazione la recente conquista, conferì al libro un valore assoluto, non di mercato: lo sacralizzò (lo status symbol è un bene posizionale). Una delle conseguenze della sacralizzazione fu la nascita del senso di colpa della lettura parziale. Qualcuno oserebbe recitare il Padre Nostro solo per pochi versi?
Le rappresentazioni teatrali subirono lo stesso processo di sacralizzazione. Fino agli inizi dell'Ottocento, i teatri erano frequentati dalla sola nobiltà. Durante le performance, gli spettatori si alzavano ripetutamente, discutevano dei fatti del giorno, danzavano sotto il palco. A volte, facevano persino richieste agli artisti: immaginate un rubicondo marchese che incita il gracile Mozart a principiare il Dies Irae. L'arrivo della borghesia in platea rivoluzionò le abitudini di melomani e affini. Posti numerati, silenzio, compostezza. L'ultima volta che sono stato alla Scala una signora interrata dall'ombretto ha rischiato un enfisema polmonare piuttosto che un colpo di tosse.
Secondo Flaubert, non bisognerebbe mai toccare gli idoli: la patina della doratura potrebbe restare attaccata alle mani. Idolatrare i libri potrebbe riservare spiacevoli sorprese. Potremmo finire a bruciarli per fare grigliate come il detective-gastronomo Pepe Carvalho.
venerdì 24 luglio 2009
Vietato agli Homer
Il 21 Luglio si è chiusa la sterile campagna di adesione al Partito Democratico. Sono così diventate ufficiali e definitive le quattro candidature alla segreteria: il dalemiano Pierluigi Bersani, il veltroniano Dario Franceschini, il piombino Ignazio Marino, il pokerista Mario Adinolfi. Nella lista non c'è Beppe Grillo. La chiusura del partito al comico genovese è stata totale e compatta, a tratti persino feroce. Motivata da opportunità, serietà o forse ancestrale paura, la scelta non mi è piaciuta. Secondo me Grillo avrebbe dovuto poter concorrere alla segreteria. Per due ragioni.
Primo, vorrei un partito contendibile piuttosto che un partito murato. Se devo scegliere un paio di scarpe, preferisco avere dieci alternative piuttosto che cinque. In aggiunta, si è creato un precedente di discriminazione poco "democratico". Chi decide chi è degno di iscriversi al PD? Quali dovrebbero essere i criteri di selezione? A me, ad esempio, non piacciono i tatuaggi. Come Lisa Simpson, penso siano un modo convenzionale per essere anticonformisti. Allora, a tutti i tuatati dovrebbe essere negata la tessera del PD?
Secondo, la partecipazione di Grillo avrebbe dato rappresentanza ad una componente rilevante degli elettori del PD. Sono pronto a scommettere che almeno il 5% dei democratici legge il blog di Grillo, ed almeno il 20% di essi pensa che Travaglio abbia sostanzialmente ragione. E non faccio stime sugli entusiasti telespettatori di Michele Santoro. Qui sto considerando solo gli attuali elettori del PD. Se dovessi ricordare quelli potenziali, coloro che ora per protesta confluiscono nell'Italia dei Valori o nell'astensionismo, l'impatto delle idee di Grillo sarebbe magnificato. Io penso tutto il male possibile di Grillo e Travaglio. Tuttavia, mi interessano molto coloro che li ascoltano, cittadini affamati di partecipazione che non trovano soddisfazione civica nei partiti regolari. Aver escluso Grillo significa aver escluso questi cittadini, per l'ennesima volta. E questo credo sia stato un errore.
Update: Adinolfi ha ritirato la candidatura e si è schierato con Franceschini. Simile scelta aveva fatto Debora Serracchiani. Pare che Franceschini abbia poltrone per tutti.
giovedì 23 luglio 2009
Difficile est saturam non scribere
La trattativa per il passaggio di Zlatan Ibrahimovic al Barcellona e Samuel Eto'o all'Inter pare essere conclusa. Come viscoso scambio tra mercenari, la vicenda non è di particolare interesse. Come soggetto di una pièce teatrale, invece, merita attenzione.
Non è il Piccolo di Milano e neppure il San Carlo di Napoli. Sono gli studi di Telelombardia, televisione regionale che trasmette ovunque, purchè strettamente a nord del Po. Da un open space foderato di plastica azzurra, va in onda Qui Studio a Voi Stadio (QSVS). Sarebbe un'errore ridurre QSVS al consueto talk-show calcistico. QSVS è il Guggenheim del calcio parlato, la più alta espressione contemporanea della commedia dell'arte.
Tutte le sere (non è un'iperbole: tutte le sere) una compagnia di trenta superbi attori mette in scena uno spettacolo degno del miglior Goldoni. Si alternano sul palco, una decina alla volta. Non seguono un copione, recitano a soggetto. Nelle ultime settimane il canovaccio è stato lo scambio tra il discontinuo genio zingaro di Ibra e quel selvaggio leone di Eto'o. A lungo hanno intrattenuto sui tentennamenti del pastore evangelico Kakà. Uno dei temi prediletti è il burbero filosofo di Setubal, a tempo perso allenatore dell'Inter, Josè Mourinho.
La studiata improvvisazione è il segreto del loro successo. Come nel jazz il basso risponde al sax tenore, così a QSVS lo juventino replica al milanista. Il movimento fondamentale della recitazione è dato dall'antagonismo tra le squadre di appartenenza. Nella tradizionale commedia dell'arte, il servo imbroglione Arlecchino schernisce il presuntuoso dottor Balanzone. A QSVS l'interista Evaristo Beccalossi rinfaccia al cugino rossonero Cristiano Ruiu di essere retrocesso in serie B più di vent'anni fa. Colombina, la svampita servetta, oggi legge le mail dei telespettatori, indossa vistose scollature e si chiama Giorgia Colombo.
Si dice che tutti i grandi registi italiani (eccetto Sergio Leone) abbiano subito l'influenza della commedia dell'arte. Oggi, per conoscere l'espressione contemporanea dell'eredità di Pulcinella, Totò ed Eduardo De Filippo, basta sintonizzarsi su Telelombardia verso le nove di sera (di una qualunque sera) e aspettare con trepidazione la prima battuta di Marcello Chirico.
mercoledì 22 luglio 2009
Hello Chicago
Ieri sera Italia 1 ha trasmesso le ultime puntate della prima stagione di Eli Stone, una serie televisiva americana prodotta dalla ABC. Eli Stone è un rampante avvocato di San Francisco. Dopo la diagnosi di un aneurisma cerebrale, la vita di Eli cambia radicalmente. Comincia ad avere delle visioni: George Michael, un comizio oceanico, un terremoto. Inizialmente, Eli crede che le allucinazioni siano causate dall'aneurisma. Gradualmente, si convince che esse siano qualcosa di diverso. Pur non essendo religioso, le interpreta come dei segnali: le visioni gli indicano i casi che deve seguire. Così smette di occuparsi di clienti facoltosi e spende il suo tempo proteggendo gli interessi di persone comuni, uomini della strada senza alcuna eccezionalità salvo l'essere protagonisti delle sue allucinazioni.
Il conflitto tra fede e ragione sostanzia anche Lost, un'altra serie televisiva americana prodotta dalla ABC. Per essere sbrigativi (so che purtroppo esistono dei non eletti), Lost è quella dell'incidente aereo e dei dispersi su un'isola misteriosa. Tra i personaggi principali ci sono John Locke, infermo cui l'isola ha restituito l'uso delle gambe, e Jack Shephard, chirurgo prodigio di Los Angeles. Sull'isola succedono cose inverosimili: John e Jack rappresentano le antagonistiche interpretazioni di tali eventi. John crede che nulla accada per caso, che esista un destino e che sia necessario avere fede. Jack sostiene l'approcio scientifico, cerca di razionalizzare basandosi sulle evidenze empiriche.
Il ritorno della fede è un'interessante costante delle contemporanee narrazioni dell'Occidente sull'Occidente. Un mirabile esempio sono i discorsi di Barack Obama (soprattutto in campagna elettorale). Considerati nel complesso, sono un poema epico con piena dignità letteraria. Abbiamo l'eroe profetico, la sfida titanica, la dimensione individuale e collettiva. E abbiamo la fede. Il formidabile "Yes, we can" non è argomentato, è creduto.
Se la secolarizzazione sembra aver allontanato gli individui dalle religioni codificate, pare non abbia annullato il bisogno di spiritualità. E questo, secondo me, è un bene.
martedì 21 luglio 2009
Puttana una volta, puttana per sempre
Ennesima esclusiva di Repubblica sul caso accompagnatrici a Palazzo Grazioli. Questa volta sono le registrazioni audio degli incontri tra Patrizia D'Addario (escort pugliese) e Silvio Berlusconi (presidente del consiglio brianzolo).
E' difficile prevedere come Berlusconi uscirà da questa storia. A me piacerebbe vederlo su un'isola deserta, visibilmente appesantito, un po' Marlon Brando, un po' Luciano Gaucci, che osserva un battaglione di creole vergini tailandesi con una batida di cocco in mano.
E' possibile, invece, intuire cosa succederà a Repubblica. Prima o poi, penso subirà una crisi di credibilità. Il punto non è aver detto il falso, ma quale verità aver deciso di raccontare.
Repubblica non è mai stata solo un quotidiano. Il mahatma Eugenio Scalfari ha fondato e cresciuto un partito, un progetto pedagogico, non un giornale. I romanzi più cool del Novecento, i pensosi articoli di Gustavo Zagrebelsky sul concetto di democrazia, le manie bibliofile di Umberto Eco, la prosa ottocentesca di Pietro Citati: tutto funzionale alla creazione di una classe dirigente liberale e socialista, laica e metafisica, chic e radicale.
Così Repubblica ha combattutto il Berlusconismo per vent'anni: educando. Uno sforzo esasperato per spiegare a quell'intellighenzia di lettori che il conflitto di interessi distorce il sistema di poteri e contropoteri, che sta nascendo una nuova forma di totalitarismo attraverso l'immedesimazione del popolo con il corpo del capo, che la libertà di stampa, che la satira, che la corruzione, che i condoni fiscali, che lo stalliere mafioso e bla bla bla. Così Repubblica ha combattutto il Berlusconismo per vent'anni, e ha perso.
Non saprei dire quando è successo: qualche settimana, qualche mese, forse qualche anno. Tuttavia, penso sia successo. Penso che Ezio Mauro abbia preso coscienza della sconfitta e capito che il luminare sociologo non è Ilvo Diamanti, bensì Maria De Filippi. Da qui l'investimento sul caso Noemi, l'attenzione per l'inchiesta di Bari, le intrusioni a Villa Certosa. Insomma: Barbara Montereale al posto di Franco Cordero.
Qui nasce il problema di credibilità. Quando il gossip avrà annoiato, quando Berlusconi sarà stato sepolto dalla libido o innalzato dalla virilità, con quale credibilità Repubblica potrà tornare a pubblicare quei sermoni intellettualoidi sulla distinzione tra pubblico e privato, sulla società liquida, sul comportamento delle masse?
lunedì 20 luglio 2009
Il nome della rosa
Oggi l'Economist recensisce un paper di Goldenberg e Levy. Gli autori sostengono che internet non abbia esteso la nostra rete di relazioni sociali, bensì l'abbia resa più densa. L'idea è un circolo vizioso (o virtuoso). Facebook, gmail e skype non creano nuove amicizie, mentre rafforzano quelle esistenti. Amicizie più forti implica amicizie più soddisfacenti, quindi minore incentivo per fare nuove conoscenze, quindi minore probabilità di fare nuove conoscenze.
La tesi è testata empiricamente usando un indice di dispersione geografica dei nomi per nuovi nati. Goldenberg e Levy postulano che la scelta del nome del nascituro è un processo condiviso dai futuri genitori con parenti, amici e conoscenti. Una rete di relazioni sociali è caratterizzata da una dispersione geografica omogenea di nomi per nuovi nati poichè non sono i singoli genitori a decidere, bensì la rete stessa.
La scelta del nome è un argomento che ha già attratto l'attenzione degli economisti. Nel popolare Freakonomics, Dubner e Levitt hanno confutato la tesi del nomen omen. Non c'è un rapporto di causalità tra nome e destino, ma una semplice correlazione. Se Amber o Cody hanno meno probabilità di successo nella vita rispetto ad Alexandra e Benjamin, non dipende dal fatto che Amber sia un nome nefasto mentre Alexandra un nome fortunato. Piuttosto, si osserva che genitori a basso reddito chiamano spesso il figlio Cody mentre genitori ad alto reddito chiamano spesso il figlio Benjamin. In sintesi: la causalità sta in banca, la correlazione all'anagrafe.
Tuttavia, mi sembra ci siano almeno due ragioni per rivalutare l'importanza del nome per se. Primo, il nome è un marchio. Esistono professioni dove relazionarsi con il prossimo è la professione stessa. Un nome d'impatto, facile da ricordare può essere un vantaggio (avete mai conosciuto una pr di nome Gertrude?). Secondo, il nome è un basilare carattere identitario. Un nome particolarmente cacofonico, esotico o ridicolo può diminuire l'autostima del portatore, riducendo le sue possibilità di affermazione personale. Ricordo un bambino il cui cognome era "Cazzoni". Ho sempre pensato che la sua vita fosse segnata in parteza.
Un notevole esempio sono i nomi d'arte. L'impronunciabile Audrey Kathleen van Heemstra Ruston sarebbe un'eterna icona di eleganza priva d'un soave pseudonimo? Robert Allen Zimmerman avrebbe avuto la forza interiore di rivoluzionare la cultura popolare del ventesimo secolo senza un mitomane rimando al poeta Dylan Thomas?
E una rosa avrebbe davvero lo stesso dolce profumo se fosse una petulante petunia?
domenica 19 luglio 2009
De constantia sapientis
Prima che Cronkite morisse, Slate dedicava l'apertura alla masturbazione nel regno animale.
A quanto pare, non siamo le uniche bestie dedite all'autoerotismo. I cavalli battono ritmicamente il pene eretto sullo stomaco. Cani e gatti usano le zampe anteriori, mentre i trichechi adoperano le pinne. Pure i porcospini sfregano i genitali contro oggetti inanimati. Le più ardenti e operose sono le scimmie: le femmine di orangotango ricavano primitivi dildo da bastoni e pezzi di liana.
Se persino i ciwawa si fanno le seghe, allora la masturbazione non può essere solo un sottoprodotto della nostra fisiologia (ovvero un orrido peccato). Piuttosto, pare sia un tratto evolutivo (fottiti sesto comandamento). Una recente ricerca scientifica ha trovato una correlazione positiva tra la qualità dello sperma e l'assiduità nell'autoerotismo: il ricambio generazionale funziona, almeno per gli spermatozoi. Dunque, ceteris paribus, chi si fa più pippe ha maggiore probabilità di avere successo nella selezione naturale.
Tuttavia, alle giustificazioni evoluzioniste preferisco il fondamento filosofico. La masturbazione è un atto estremo di libertà. La dipendenza sessuale rende l'uomo un animale sociale, quindi schiavo di altri e non di se stesso. Solo l'autoerotismo può condurre all'autarchia stoica.
sabato 18 luglio 2009
Altrove
Morgan stasera ha suonato a Cremona (performance discreta: un pubblico televisivo non l'ha avvampato).
Di Morgan mi interessa solo superficialmente l'aspetto musicale. Quello che più mi affascina è il suo modo ingenuo di essere se stesso. Morgan ha un'idea platonica di artista, e vi aderisce in modo acritico. I costumi barocchi, l'eloquio forzato, il citazionismo fluviale.
Trovo stupida l'intelligenza che gli è riconosciuta. Dice le cose giuste al momento giusto, e non c'è nulla di più banale della puntualità. Nell'essere elitario, è convenzionale. Le sue espressioni più ricercate sono già condivise, e per questo risultano d'istinto apprezzabili. Esemplifico. Dire che Tom Waits potrebbe cantare l'elenco del telefono, è un pensiero elitario. Eppure è convenzionale (oltre che una stronzata): chi conosce Tom Waits avrà già sentito questa frase almeno due volte.
Nonostante ciò, sento una simpatia smisurata verso Morgan. Proust dice che i benché sono sempre dei perché misconosciuti. Questo è il caso. Io provo una simpatia smisurata verso Morgan proprio a causa della cecità del suo idealismo. Deve essere l'invidia per l'uomo che non cura la sua ombra stampata dalla canicola sopra un muro scalcinato.
venerdì 17 luglio 2009
Questo post sarà scritto in forma ridotta per venire incontro alle vostre capacità mentali
Dopo una breve vacanza, è di nuovo in onda il programma comico Colbert Report.
Pensate a Emilio Fede. Pensate a Emilio Fede che mostra la gigantografia di Prodi mentre grugnisce. Che storpia il nome di tutti i politici che stanno a sinistra di Teodoro Buontempo. Che recita una poesia di Sandro Bondi. Pensate a Emilio Fede che fa tutte queste cose, ma le fa con autoironia. Ecco, questo è il Colbert Report.
Stephen Colbert è un improbabile giornalista americano di simpatie repubblicane. Per venti minuti quasi quotidiani commenta le notizie del giorno, reali o super reali che siano. Narciso fino all'affogamento, in studio è acclamato da un pubblico sboccato e urlante. Dopo la sigla d'apertura, è abitudine una standing ovation. Stephen la placa dicendo cose come: "I don't like to stop the adulation anymore than you like stopping adulating me".
Ci sono alcune rubriche fisse. Per esempio: The Word. Stephen sceglie la parola del giorno e costruisce un serioso sermone. Come controcanto, didascalie oscene commentano le sue frasi istituzionali, creando un esplosivo stridore. Una sintetica intervista occupa il finale di ogni puntata. Di solito, l'interesse sta nelle risposte dell'ospitato. Qui quello che conta sono le domande dell'ospitante, tanto pretestuose da essere irreplicabili. Memorabile il quesito rivolto al poeta Paul Muldoon: "Why do we need poetry when we have greeting cards?".
Il finto telegiornale è un format satirico di recente successo negli Stati Uniti. Il primo è stato Jon Stewart con il Daily Show (il Colbert Report è un suo spin-off). Per ritmo e flessibilità, è il superamento del talk-show tradizionale alla David Letterman. In Italia, Striscia la Notizia ha già tentato qualcosa del genere. Tuttavia, la natura nichilista di Antonio Ricci (il popolo è bue ed arerà per me) le impedisce di distinguersi da un cinepanettone. Un precursore vero lo abbiamo avuto. Sarebbe magnifico riaverlo. Temo sia troppo compiaciuto dal ruolo di perseguitato.
giovedì 16 luglio 2009
Jam Session
Come dice Zoro, di questi tempi D'Alema è più imprevedibile di Brad Mehldau. Al democratic party di Roma, intervistato dal domestico Antonio Polito, l'ex Presidente del Consiglio esibisce un eloquio senza freni inibitori.
Prima, l'ex ministro degli esteri attacca Franceschini, definendolo un ingrato. Giusto: doveva proteggere la candidatura di Bersani fino alle Europee e quindi dedicarsi all'oblio.
Poi, l'ex segretario del PDS irride la vocazione maggioritaria, sostenendo che l'autosufficienza è arrogante utopia. Giusto: l'obiettivo è vincere le elezioni, governare in modo coerente non interessa a nessuno. Per chi si fosse annoiato durante il video: al posto della vocazione maggioritaria, l'ex presidente dei DS propone il modello pugliese: alleanza con Di Pietro e Casini... contemporaneamente.
Infine, l'ex presidente della Bicamerale difende l'indistruttibile apparato e diffida delle primarie. Giusto: la politica è un nobile mestiere e il miglior argomento contro la democrazia è una conversazione di cinque minuti con l'elettore mediano.
L'antipolitica per la prima volta sta a sinistra e chissà dove sono i colpevoli. Forse nella schiera degli ex? Sembrano inconsapevoli postumi in vita.
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